A bocca chiusa. La silenziosa resistenza di Nadia Anjuman

A bocca chiusa. La silenziosa resistenza di Nadia Anjuman

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Marisol Mologni

Marisol Mologni

16 ottobre 2024

Nadia Anjuman è stata una poetessa afghana, simbolo di una silenziosa resistenza contro il regime talebano. Tra vita e poesia, tra silenzio e ribellione.

Cammino per strada, è buio, i lampioni illuminano i contorni delle figure che vedo creando giochi di ombre che non comprendo, i miei passi si susseguono come una danza che non ho mai voluto imparare e, quasi seguendo il ritmo dei miei battiti, fisso ciò che ho davanti, decisa, come se ogni metro calpestato fosse una conquista; la musica nelle orecchie, sempre più alta di ciò che mi sta attorno, ma mai troppo alta per restare indifferente agli sguardi rumorosi del mondo; in riproduzione, ascolto “e le parole, sì lo so, so' sempre quelle, ma è uscito il sole e a me me sembrano più belle; scuola e lavoro, che temi originali, se non per quella vecchia idea de esse tutti uguali. E senza scudi per proteggermi, né armi per difendermi, né caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi, con solo questa lingua in bocca, e se mi tagli pure questa, io non mi fermo, scusa, canto pure a bocca chiusa”; condivido la mia posizione con i miei amici, “stai attenta, sei sempre in giro da sola, è tardi, è buio, hai il telefono carico?” mi chiedono. Vorrei che queste domande si affievolissero con la stessa velocità con cui si dissolvono i miei pensieri quando arrivo alla meta desiderata, un sospiro di sollievo e quel soave rito: “sono arrivata” scrivo e con un gesto quasi liberatorio appoggio il mio zaino a terra e, con esso, tutte le preoccupazioni.

In un flusso di coscienza incontrollato penso alla poesia, che in quello zaino così pesante c’è sempre: nei viaggi in treno verso l’università, mentre vado al lavoro o prima di bere un caffè con i miei amici. La poesia mi affascina perché non la capisco, non ne capisco mai le mille sfaccettature che dovrei cogliere, le infinite declinazioni delle parole e, proprio per questo, credo sia la forma migliore per leggere questo mondo sempre più difficile da comprendere. Oggi, arrivata a destinazione, qualunque essa fosse, mi sono seduta e ho letto:

Non ho voglia di aprire la bocca

di che cosa devo parlare?

che voglia o no, sono un’emarginata

come posso parlare del miele se porto il veleno in gola?

cosa devo piangere, cosa ridere,

cosa morire, cosa vivere?

io, in un angolo della prigione

lutto e rimpianto

io, nata invano con tutto l’amore in bocca.

Lo so, mio cuore, c’è stata la primavera e tempi di gioia

con le ali spezzate non posso volare

da tempo sto in silenzio, ma le canzoni non ho dimenticato

anche se il cuore non può che parlare del lutto

nella speranza di spezzare la gabbia, un giorno

libera da umiliazioni ed ebbra di canti

non sono il fragile pioppo che trema nell’aria

sono una figlia afgana, con il diritto di urlare.

Il diritto di gridare, Nadia Anjuman

Nadia Anjuman ha visto nella poesia una forma di libertà, lei che ha vissuto l’adolescenza sotto il sistematico regime oppressivo dei Talebani che controllò il territorio afghano fino al 2001, lei che è morta a 24 anni massacrata di botte dal marito, 6 mesi dopo aver partorito la sua bimba. Anjuman scrive poesie e le scrive perché quelle non gliele possono togliere; le scrive perché vuole innamorarsi, perché anche l’amore è un atto di ribellione; le scrive perché vuole sognare, sperare e credere che possa esistere davvero un mondo più giusto in cui lei possa avere i miei stessi diritti. Nadia frequentò “L’ago d’oro”, un corso di cucito, unica attività permessa alle donne dal regime, in verità, un clandestino circolo letterario gestito da insegnanti delle università locali che le permise, al termine della dittatura talebana, nel 2001, di iscriversi al corso di Letteratura e Lingue Farsi all’Università di Herat in cui conobbe anche colui che sarebbe stato per lei prima marito e poi assassino. Le poesie di Nadia Anjuman riscossero grande successo: le pubblicazioni e le letture nella città la resero conosciuta ma, nonostante la parvenza di diritti garantiti dalla nuova costituzione del 2004, la sua voce non poteva essere ascoltata. Così Anjuman venne uccisa; il marito non diede il consenso per l’effettuazione dell’autopsia, disse alle autorità che ingerì del veleno, ma gli evidenti segni di percosse e il trauma cranico riportato dalla donna non sostennero la sua tesi, era evidente fosse stata picchiata a morte; ma il marito uscì dal carcere dopo solo un mese di detenzione e l’omicidio venne definitivamente archiviato come suicidio.

Ripongo delicatamente la storia di Nadia nello zaino, pensando che ora la sua storia è quella di più di quattordici milioni di donne a cui, dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021 e la pubblicazione dei nuovi editti, sono stati ufficialmente negati tutti i diritti. Le donne non possono uscire di casa se non per motivazioni strettamente necessarie e non possono farlo da sole, ma sempre accompagnate da uomini appartenenti alla famiglia; il loro corpo non deve essere visto, la loro istruzione non è garantita, il loro lavoro è impedito e la loro voce è negata: non una parola, non parole d’amore, di sofferenza, di dolore, non canzoni, non poesie, non filastrocche per rassicurare i propri figli, non risate, non una parola.

E allora, cara Nadia, se non puoi più avere parole, prometto che le avrò io. Certo, se tu fossi ancora qui potremmo farlo insieme, potremmo scrivere poesie insieme. Però qui siamo tante, possiamo farcela, sorelle e condottiere silenziose.

A voi, ragazze isolate del secolo

condottiere silenziose, sconosciute alla gente

voi, sulle cui labbra è morto il sorriso,

voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due,

cariche dei ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti

se tra i ricordi vedete il sorriso

ditelo:

Non avete più voglia di aprire le labbra,

ma magari tra le nostre lacrime e urla

ogni tanto facevate apparire

la parola meno limpida.

Magari, Nadia Anjuman

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